White Act nasce da una riflessione sulla fragilità.
Nel corso dell’esistenza facciamo i conti con l’idea della nostra fine. La caducità della vita e del corpo è qualcosa di terrorizzante per tutti. Come danzatrice che fa affidamento sulle capacità performative del corpo, sento che intorno a questo tema si condensa il nucleo di White Acts. Un solo le cui protagoniste Giselle, Myrtha, Odette o Nikija si fondono e incarnano sul corpo di un’unica interprete, il mio.
L’atto bianco è quella sezione del balletto romantico che porta in scena la dimensione dionisiaca della vita (la follia, la paura, la morte) attraverso una forma marcatamente apollinea: una danza estremamente virtuosa, centrata sulla bellezza, il controllo, la purezza esasperata nel simbolismo del colore bianco.
Mi interessa approfondire questa tensione, metterla in relazione con delle domande: Che senso ha sforzarsi di sembrare leggeri quando stiamo facendo fatica? Che senso ha ostentare di essere sempre padroni di sé? Ha senso danzare per parlare di qualcosa che sfugge per definizione al controllo? Ha senso danzare?
Il termine ballet blanc si usa per indicare quella sezione dei balletti romantici nella quale sono protagoniste creature immateriali ed eteree, rappresentate nel costume da abiti bianchi. Il nome del genere deriva proprio dal costume bianco disegnato da Eugène Lami per la figlia di Taglioni, che divenne l’abito riconosciuto per le ballerine della scuola accademica. La maggior parte dei più importanti balletti romantici ne contiene almeno uno, a partire da La Sylphide fino a Giselle, Il lago dei Cigni e La Bayadere. L’atto bianco è un mondo sovrannaturale in cui si svolge un finale tragico. Le ballerine impersonano fantasmi, driadi, naiadi, fate e altre creature soprannaturali, irrazionali e mistiche. Con il loro aspetto sognante e leggero sembrano sfidare la legge di gravità.
La mia intenzione è quella di lavorare sulla tensione che l’atto bianco istituisce tra forma e contenuto: tra una danza controllata e la rappresentazione di stati di coscienza alterati, di perdita di confine tra reale e immaginario, tra vita e morte, tra sanità e follia. Mi interessa esplorare la contraddizione data dal rappresentare scenicamente il dolore, negandolo di fatto su un piano fisico.“Danza come se ti venisse naturale, come se non facessi alcuno sforzo, come se fosse facile” è uno degli imperativi più comuni nel corso della formazione di un danzatore.
Se l’atto bianco romantico è la rappresentazione del lato più oscuro dell’animo umano ma stilizzato in una forma rigida e ipercontrollata, desidero appropriarmi di questo paradosso. Così i miei atti bianchi saranno azioni, movimenti, gesti, manifestazioni esterne di una determinazione della volontà, episodi.
Esplorare le contraddizioni dell’Atto bianco romantico significa per me trasformarle in domande da portarmi dietro durante la mia pratica, come guida e, al tempo stesso, gabbia da mettere in relazione con la mia personale esperienza della morte, del lutto, nonché con le zone d’ombra del mio percorso artistico e professionale, che si è dato a partire dalla danza classica. Rappresentare il dolore non sarà riviverlo in scena, anche se l’esigenza della creazione nel mio caso scaturisce dal desiderio di parlare di esperienze reali.
“Artista non è colui che esplode dentro, questo può succedere a tutti; è Artista soltanto colui che depone l’esplosione ai piedi del pubblico con ritmo, poesia e bellezza, anche se sta danzando un crimine.” Aline Bei, in questo passo del libro Piccola coreografia dell’addio non parla dell’arte come di un’ espressione spontanea delle emozioni ma come di una costruzione, di una tecnologia, di un linguaggio, di un codice.
In Dove lei non è, un diario del lutto scritto da Roland Barthes in morte di sua madre, l’autore afferma: “Mi sono sempre (dolorosamente) stupito di potere – finalmente – vivere con la mia tristezza, il che significa che essa è, alla lettera sopportabile. Ma – forse – è perché bene o male (ossia con l’impressione di non arrivarci) posso parlarla, fraseggiarla. La mia cultura, il gusto della scrittura, mi danno questo potere apotropaico, o d’integrazione: io integro*, grazie al linguaggio. La mia tristezza è inesprimibile, e tuttavia dicibile. Il fatto stesso che la mia lingua mi fornisca la parola <<intollerabile>>, realizza immediatamente una certa tolleranza.”
Vorrei che la danza funzionasse per me come la scrittura per Barthes, cioè come meccanismo di formalizzazione del sentire, quindi di esorcizzazione del dolore. Come la scrittura integra e al tempo stesso irreggimenta il linguaggio, la danza mi potenzia e allo stesso tempo disciplina il mio corpo. Così facendo entrambe danno forma all’energia irregolare e sconnessa degli stati emotivi, li rendono “dicibili” ma al prezzo di farne qualcos’altro: di sostituire l’esperienza con un suo distillato. Il mio obiettivo non è risolvere questo conflitto, piuttosto abitarlo, o lasciare che abiti il mio corpo, trasformandolo in campo di battaglia. Ciò significa fare della mia danza un luogo di istanze confliggenti, un terreno di sperimentazione di stati di coscienza apparentemente inconciliabili, il teatro di un lento e ragionato sconvolgimento.
– Roberta Racis